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18 anni di “Aquemini”: qual è l’eredità lasciata dagli OutKast?

Aquemini” è universalmente considerato uno dei migliori album della storia del rap, e celebrarne il diciottesimo anniversario dalla pubblicazione è motivo d’orgoglio per qualsiasi cultore hip-hop.

Gli OutKast – André 3000 e Big Boi – hanno fatto tanta strada da quando, nel 1994, si presentarono al difficile pubblico di allora con la hit “Player’s Ball”, apripista dell’ottimo “Southernplayalisticadillacmuzik”, un disco che, in realtà, viene troppo spesso snobbato, messo in ombra dai capolavori successivi rilasciati dal duo di Atlanta.

Già, Atlanta: una piazza da sempre difficile, controversa, che ha proposto sin dagli albori un tipo di hip-hop considerato “alternativo”, ma che poco ha che vedere con il concetto di alternativo proposto da artisti come i De La Soul o i Pharcyde; forse a causa della loro lontananza geografica da New York e Los Angeles, gli OutKast sono riusciti ad imporre la loro immagine stravagante sul mercato e farsi portavoce di un’intera scena, superando i seppur capacissimi Goodie Mob, il cui album di debutto, “Soul Food” (al quale parteciparono gli stessi OutKast), è oggi onorato come un prodotto pioneristico del rap “made in ATL”, ma all’epoca troppo poco “originale” per poter competere con la foga creativa di André 3000.

C’è voluto tanto coraggio per fare breccia nell’industria black della metà degli anni ’90, e qualcuno ricorderà le profetiche – quanto coraggiose – parole pronunciate da un giovanissimo André sul palco dei Source Awards del ’95, nella cui occasione – ricevendo il premio nella categoria “Best New Rap Group” – il ragazzo, visibilmente intimidito dalla freddezza del pubblico, dichiarò: “Il Sud ha qualcosa da dire”.

André 3000 e Big Boi all'epoca del loro debutto.

André 3000 e Big Boi all’epoca del loro debutto.

Oggi, la discriminazione territoriale in materia hip-hop ci sembra assurda, ma ai tempi in cui la Bad Boy Records di Puff Daddy e la Death Row Records di Suge Knight avevano un controllo pressoché monopolistico del settore, pareva quasi assurdo immaginare che uno “straniero” – che non provenisse cioè dall’area di NY o LA – potesse permettersi di fare la voce grossa, a parte sporadiche eccezioni.

In effetti, tutto il Sud degli Stati Uniti, fino all’arrivo degli OutKast, aveva sofferto la mancanza di personalità al contempo carismatiche e valide: a Houston, ad esempio, c’erano i Geto Boys di Scarface, spalleggiati dal colosso Rap-A-Lot di J. Prince, un losco figuro che gli appassionati di pugilato più accaniti ricorderanno nelle vesti di procuratore di uno sbarbato Floyd Mayweather; sempre in Texas, avevano dimora gli UGK del compianto Pimp C, il cui album “Ridin’ Dirty” (uscito peraltro nel luglio del ’96, solo un mese prima di “ATLiens”, altro capolavoro degli OutKast) è frequentemente indicato come un “classico” della scena texana, al pari di “Grip It! On That Other Level” (1989) e “We Can’t Be Stopped” (1991), entrambi degli appena citati Geto Boys. Una menzione d’onore la meritano anche 8Ball & MJG (questi provenienti da Memphis, nel Tennessee), la cui ascesa ha però cominciato ad arrestarsi dopo la prima metà degli anni ’90.

Di fronte a questo panorama scarno d’idee nuove e rivoluzionarie (il sound degli UGK strizzava troppo l’occhio al G-Funk californiano, mentre i Geto Boys sembrava volessero portare nella loro terra il gangsta rap degli N.W.A), non è così difficile capire perché gli OutKast ebbero modo di sbizzarrirsi e fare incetta di riconoscimenti: dopo il moderato clamore suscitato dal primo disco, la caparbia LaFace Records (etichetta fondata nel 1989 da Antonio “L.A.” Reid ed il cantante R&B Babyface) mandò alle stampe “ATLiens”, nell’agosto del ’96, e quindi “Aquemini” (agosto ’98), disco che vede realizzarsi nella sua interezza il processo di evoluzione contenutistica e stilistica cominciato con il lavoro precedente, chiaro segnale di una libertà creativa – in salsa futuristica – che aveva preso il posto delle incertezze su cui era stato costruito il successo del primo long playing.

Gli OutKast: Antwan "Big Boi" Patton e André "André 3000" Benjamin.

Gli OutKast: Antwan “Big Boi” Patton e André “André 3000” Benjamin.

Molto di quanto i fans hanno potuto ascoltare tra “ATLiens” e “Stankonia” (uscito due anni dopo “Aquemini”, nel 2000) è dovuto all’enorme influenza spirituale esercitata su André 3000 dalla cantante soul Erykah Badu, con la quale il rapper ebbe anche un figlio, Seven Sirius Benjamin, nato nel 1997. E’ soprattutto grazie a questa particolare figura femminile che André ebbe modo di prendere le distanze dai vecchi cliché hip-hop degli anni ’90 e cominciare a parlare di argomenti inediti e positivi, nonché di cambiare totalmente il suo stile di vita, abbandonando la marijuana ed abbracciando una dieta vegetariana; anche nei successivi “Speakerboxxx/The Love Below” (2003) ed il deludente “Idlewild” (2006), nonostante la rottura con la Badu, André non avrebbe abbandonato l’immagine unica che ormai tutti gli associano, l’avrebbe anzi resa ancor più personale, anche se è doveroso porre l’accento sull’immorale emulazione perpetrata dai rapper di Atlanta dell’ultima generazione.

Tra gentaglia del calibro di Young Thug, Future, Rich Homie Quan e Lil Yachty, diciamo che la scena attuale di Atlanta non ha molto di cui andare orgogliosa: tramontata l’epoca di maggior splendore dei vari Ludacris e T.I., la Georgia sembra oggi ostaggio della mediocrità, ed il resto del Sud non pare navigare in acque molto più tranquille. Sono in molti, tra chi ha monitorato la situazione nel corso degli anni, a puntare il dito contro la Cash Money di Birdman e Lil Wayne, fucina di talenti (?) che oggi dominano il mercato ma la cui impronta artistica risente fortemente di quel tipo d’inventiva ottusa che sta snaturando completamente l’hip-hop agli occhi delle nuove generazioni.

Quante di queste colpe, tuttavia, sono attribuibili agli OutKast?

André 3000 – senza nulla togliere a Big Boi – sarà eternamente etichettato come un “diverso”, o almeno un precursore della diversità, fintanto che questa non diverrà la regola, al pari di altri artisti (vedi ODB, oppure Busta Rhymes) che hanno fatto della loro stravaganza un inconfondibile marchio di fabbrica, soggetti anche quindi all’imitazione a buon mercato da parte d’individui privi di qualsivoglia talento.

André è un artista, la profondità del suo personaggio è indiscussa, e le sue incredibili capacità al microfono ne hanno fatto uno dei più dotati MC di tutti i tempi, permettendogli quindi di ottenere il rispetto dei puristi più veraci, i quali magari non condividono lo stile del nostro sfoggiato nel video di “Hey Ya!”, ma s’inchinano con riverenza di fronte alla sua straordinaria performance nel terzo verso di “Elevators (Me & You)”, impareggiabile per metrica e complessità sintattica.

Gli OutKast ai tempi dell'uscita di "Stankonia", nel 2000.

Gli OutKast ai tempi dell’uscita di “Stankonia”, nel 2000.

Non sarebbe dunque corretto, vista la qualità messa sul piatto nel corso della loro meravigliosa carriera, additare gli OutKast come complici nel disastro che si sta consumando oggigiorno sulla scena hip-hop statunitense, ma concentrarsi sulle responsabilità di chi è venuto dopo: il vero problema è che l’accettazione presso le masse della pochezza artistica, fautrice della composizione monodimensionale, e la mancanza di un senso di continuità con il glorioso passato (uno come Lil Wayne non ha mai dato l’impressione di essere uno “studente” del grande libro della storia hip-hop), ha fatto credere a questi nuovi rapper, a qualsiasi latitudine (Desiigner, ahinoi, viene dallo stesso quartiere di Biggie, Bedford-Stuyvesant, a Brooklyn), che il mestiere del rapper possa essere improvvisato, e che i canoni culturali possano essere stravolti senza alcun tipo di criterio, senza quella genialità che contraddistingue soltanto i più grandi.

Non è in questo modo che gli OutKast hanno strutturato la loro carriera, né ciò che hanno avuto intenzione di fare una volta raggiunta la vetta: durante il loro percorso, il duo ha sì intrapreso strade precedentemente inesplorate, ha sì prodotto i propri capolavori cavalcando l’onda del “carpe diem”, ma l’ha fatto con un tale senso di maestosità e di rispetto verso le radici che è impossibile non coglierne la nobile essenza, ed è proprio in “Aquemini” che questa nobiltà d’intenti trova la sua autentica sublimazione, motivo per cui oggi ne parliamo come di un’opera d’avanguardia, una sorta di “The Dark Side of the Moon” dell’hip-hop, anni ed anni prima che Kanye West e Kendrick Lamar entrassero nella loro fase sperimentale.

E’ anche vero, purtroppo, che André e Big Boi si sono di recente schierati a favore di alcuni ometti indifendibili (l’ex compagno della Badu ha avuto il non indifferente fegato di elogiare i testi di Young Thug), ma per quanto le opinioni dei veterani possano talvolta essere discutibili, è necessario attenersi alle azioni, più che alle parole: Young Thug non sarà mai in grado di lasciare ai posteri un album della caratura di “Aquemini”, così come André non si presenterà mai davanti al suo pubblico con un verso tanto scadente quanto quelli a cui ci ha abituati l’autore di “Barter 6”.

Nessuno di noi può realmente prevedere in che direzione si muoverà l’hip-hop, ma se le nuove leve (specie i nativi della Georgia) imparassero l’arte da dischi come “Aquemini”, invece di buttarsi nella mischia senza nemmeno conoscere un minimo di storia e sentirsi legittimati dall’approvazione distratta di un veterano (che poi, nella propria carriera, ha fatto tutt’altro), il quadretto sarebbe molto più confortante.

Restiamo in fiduciosa attesa.

 

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

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Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Classe 1991, vive e lavora a Milano. Esperto di cultura Hip-Hop statunitense, collabora con Mondo Rap dall'ottobre del 2015.