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Snoop Dogg: tanto fumo e tanto arrosto

Nel corso della sua più che ventennale carriera, Snoop Dogg ha cambiato pelle più volte. Presentatosi dapprima come pericoloso membro dei Crips di Long Beach, l’ex figlioccio di Dr. Dre è passato attraverso una serie di mutazioni che l’hanno visto vestire i panni del magnaccia, del don di corleonese fattura e, più recentemente, del profeta della filosofia rastafariana.

La verità è che, tirando le somme, il filo conduttore che lega tutte queste trasformazioni di Snoop è decisamente la cannabis.



Senza voler entrare nel merito di quello che, per i più appassionati, è un vero e proprio stile di vita, il consumo d’erba sembra aver fatto di Snoop Dogg un simbolo del vizio, portando milioni di persone nel mondo a credere che il rapper sia giustificato nel suo status di “icona” proprio per questa sua passione.

In realtà, un’attenta analisi del personaggio – anche slegata dai più o meno approfonditi cenni biografici – mostrerebbe che la longevità di Snoop è dovuta in primo luogo al suo contributo alla scena hip-hop statunitense dei primissimi anni ’90, in un’epoca di transizione culturale che ha visto lo stesso sound del rap virare verso quei parametri che, almeno in parte, conosciamo ancora oggi.

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E’ fuori discussione che la cosiddetta “fiamma” che ha elevato il personaggio al grado di “leggenda” si sia spenta nel giro di un album, massimo due: a parte i primi due dischi rilasciati sotto etichetta Death Row Records (“Doggystyle”, “Tha Doggfather”), Snoop ha sostanzialmente vissuto di rendita, pubblicando dischi più per meri obblighi contrattuali che per reale ispirazione (citofonare No Limit); qualcuno potrebbe altresì affermare che qualche progetto qua e là (vedi “Tha Last Meal”, “Tha Blue Carpet Treatment”) potrebbe aver un po’ ravvivato quella fiamma di cui parlavamo poc’anzi, ma è un pensiero collettivamente accettato che, escluso “Doggystyle”, nessuno dei successivi album di Snoop possa essere considerato un classico per definizione.

Proprio la mancanza di sostanza ha portato l’opinione pubblica a focalizzare l’attenzione su aspetti secondari del nostro, il quale non ha comunque fatto nulla per prendere le distanze da questi, ed addirittura rinfocolandone la fama, procurandosi un marchio stampato sulla pelle che difficilmente sbiadirà. Pur non avendo mai abbandonato la sua attitudine da “gangsta”, come detto, Snoop Dogg è entrato nel cuore di tutti per il suo sconfinato amore nei confronti della maijuana: basta chiedere ad un qualsiasi passante di una qualsiasi città italiana e non, infatti, per rendersi conto che l’immagine di Snoop è immediatamente associata a quella dell’erba psicotropa, ma è bene far notare che questa caratteristica del personaggio non deve in nessun modo prevalere per chi si considera un serio seguace della cultura hip-hop.

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L’idea che Snoop Dogg sia “semplicemente un fattone”, è uno stereotipo da lasciare a chi non ha nemmeno interesse ad approfondire le ragioni del suo successo; un “adepto” dell’arte di Kool Herc, invece, ha il dovere di far diradare i vapori della faciloneria e rammentare sempre al prossimo che c’è molto altro da sapere. Chiamiamolo pure proselitismo, se vogliamo, ma il valore della storia è troppo importante perché sia distorto e impacchettato sommariamente.

Qual è, dunque, quella realtà riguardante Snoop che viene regolarmente omessa in favore del suo rapporto amorevole con l’erba?



Dopo l’uscita di “The Chronic”, a fine 1992, “Doggystyle” divenne l’album di debutto più atteso nella storia della musica. Quando i negozi erano ancora in attesa delle copie da distribuire, l’aspettativa intorno a questo lavoro era già spaventosa: mai prima di allora, infatti, il progetto di un nuovo artista era stato tanto invocato da pubblico e critica, ed il suo conseguente successo diede uno slancio tale da far comprendere agli esperti del settore che il mondo della musica – da quel momento in avanti – non sarebbe stato più lo stesso.

Snoop e Dre

Snoop e Dre

Snoop Dogg (all’epoca ancora “Doggy Dogg”) non possedeva un profilo somatico intimidatorio: giovane, magrissimo e lento nei movimenti, il suo portamento lo rendeva più simile ad una sagoma da cartone animato, piuttosto che ad un gangster a sangue freddo; la sua particolarissima voce, inoltre, era immediatamente riconoscibile, e la calma nell’espressione verbale risultava ancora più rilassata rispetto a quella già pacata (ma ancora inquietante) del rivoluzionario Rakim, tra i primi (insieme a Slick Rick, forse il più simile a Snoop nel tono) a sputare fuori rime senza eccessiva enfasi.

Le storie raccontate in “Doggystyle”, poi, sono la fotografia di un’epoca, scattata da un eroe autentico, non dal plastico prodotto di qualche discografico affamato di soldi: rispetto a “The Chronic” di Dr. Dre, che aveva ritratto gli odori che aleggiavano su tutta la città di Los Angeles, Snoop ci fa entrare nel suo quartiere di Long Beach dalla porta principale, regalandoci alcune autentiche gemme di storytelling che mai potranno essere eguagliate in termini di metrica e densità narrativa. Per la musica, infine, è anche inutile sprecare elogi.

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Detto questo, al giorno d’oggi, con una nuova generazione di fans che scalpita per prendere il centro del palcoscenico, è necessario sottolineare un fatto: Snoop Dogg è la prova vivente di quanto la cultura hip-hop sia, alle volte, superiore alla sua stessa musica. E’ solo attraverso l’accettazione di questo messaggio che possiamo spiegare il rispetto che la comunità continua a mostrare nei confronti di quest’uomo, il quale ha sicuramente commesso (e, purtroppo, sta ancora commettendo) tanti errori nella sua vita artistica, ma che rimane fondamentale nella scala gerarchica dei pionieri e molto più complesso rispetto alle pure apparenze.

Imparare la storia significa farla propria.

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

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Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Classe 1991, vive e lavora a Milano. Esperto di cultura Hip-Hop statunitense, collabora con Mondo Rap dall'ottobre del 2015.