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La verità su Tupac e la Death Row Records

Chi ha avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi ultimi lavori ante mortem (“All Eyez On Me” e “The Don Killuminati: The 7 Day Theory”) avrà certamente percepito l’orgogliosa enfasi con cui Tupac rivendicava la sua appartenenza alla “grande famiglia” della Death Row Records, davanti alle attente telecamere di MTV News.

Dopo 11 mesi passati dietro le sbarre del Clinton Correctional Facility ed in attesa del processo d’appello per il reato di violenza sessuale, Tupac sembrava aver ritrovato la gioia di vivere: al servizio di Suge Knight, il potentissimo boss della Death Row, il ragazzo era pronto a spiccare il volo, con la ferma convinzione che tutto il dolore patito fino a quel momento gli avrebbe dato la motivazione necessaria per eccellere. Parlava della Death Row come della sua casa, della sua famiglia adottiva, e questo grande affetto si univa ad un sentimento di assoluta lealtà, che sembrava trasudare direttamente dalle sue viscere.

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In realtà, analizzando i comportamenti assunti da Tupac nei mesi immediatamente precedenti la sua morte e stando a quanto emerso dalle cause giudiziarie postume intentate dalla madre del rapper, Afeni, contro il colosso discografico californiano, è possibile intuire quali fossero i reali sentimenti del poeta di East Harlem nei confronti delle persone che l’avevano accolto nella West Coast, nel suo ultimo anno di vita.

Per scavare negli intrecci storici e comprendere il quadro completo, è necessario fare un balzo indietro nel tempo, fino alla tumultuosa notte del 30 novembre 1994.

Accettato l’invito di presenziare ad una sessione di registrazione presso i Quad Recording Studios di Manhattan (NY), Tupac venne assalito da ignoti nell’atrio del locale e colpito da cinque colpi di pistola, sparati a distanza ravvicinata, per aver resistito ad un tentativo di rapina. Il giorno dopo, 1 dicembre, un giudice lo condannò a quattro anni e mezzo di carcere per lo stupro di Ayanna Jackson, da scontare nel carcere di massima sicurezza di Dannemora, fissando il prezzo della cauzione alla proibitiva cifra di 1.4 milioni di dollari.

Ancora convalescente dalle ferite dei proiettili e senza i soldi necessari per garantirsi la libertà, Tupac cadde in una profonda depressione. Le lunghe ore d’isolamento (fino a 23 al giorno) lo costrinsero a riflettere, portandolo verso una generale rivalutazione della sua esistenza, che lo stava allontanando sempre più dal mondo della musica, motivo per cui riuscì a scrivere un solo brano durante il periodo detentivo. Fu nel corso di questi dolorosi mesi che Tupac inviò una lettera al suo patrigno, Mutulu Shakur, nella quale gli confidò addirittura l’intenzione di togliersi la vita.

Tupac sulla sedia a rotelle il giorno dopo la sparatoria

Tupac sulla sedia a rotelle il giorno dopo la sparatoria

Tutto sembrò prendere una tetra piega per il ventiquattrenne Shakur, se non fosse che, sulla costa opposta – sotto il cocente sole di Los Angeles – Suge Knight era già al lavoro per portare forze fresche al servizio della sua temutissima Death Row Records.

Dopo aver conquistato un successo mondiale con “The Chronic” di Dr. Dre e “Doggystyle” di Snoop Doggy Dogg, la Death Row sembrava avviarsi verso una parabola discendente: “Dogg Food”, l’album di debutto della Dogg Pound (Daz Dillinger e Kurupt) non aveva lasciato il segno, facendo calare di parecchi milioni le vendite rispetto ai dischi precedenti, prevalentemente a causa dell’assenza di Dr. Dre dietro il tavolo della consolle. In quello stesso periodo, nel marzo del ’95, era uscito “Me Against The World”, completato da Tupac prima dell’incarcerazione e ritenuto da molti il suo miglior album. In effetti, il disco ebbe un successo clamoroso, tenendo anche conto del fatto che, per ovvie ragioni, la promozione era ridotta a zero. Sulla scena della musica internazionale, “Me Against The World” fece registrare un record mai visto prima: si trattava, infatti, del primo album nella storia della musica a piazzarsi in prima posizione (davanti a “The Ghost of Tom Joad” di Bruce Springsteen e “Daydream” di Mariah Carey), con il suo autore dietro le sbarre di un penitenziario.

Suge Knight subiva fortemente il fascino hemingwayano di Tupac: ne ammirava il modo di fare, duro ma allo stesso tempo umano, qualcosa di assolutamente non comune tra le personalità rap in voga all’epoca, e rimase molto deluso quando la sua prima proposta di firmare per la Death Row, qualche anno prima, gli fu rifiutata.

Così, sapendo che Tupac avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di uscire di galera, Suge decise di proporgli la famigerata “proposta che non si può rifiutare”: avrebbe pagato la sua cauzione, in cambio della firma di un contratto di esclusiva per tre album (due inediti ed una raccolta).

Tupac non aspettava altro, ed il 21 ottobre 1995 ottenne la libertà vigilata.

Approfittando del vulnerabile stato mentale in cui versava il suo carismatico beniamino, Knight si concesse il lusso di includere restrittive e soffocanti clausole contrattuali, redatte insieme all’inseparabile David Kenner, co-fondatore e rappresentante legale della Death Row (colui che riuscì a far scagionare Snoop Dogg dall’accusa di omicidio, nel febbraio del ’96). Per questo motivo, prima di firmare il contratto con la label, Tupac dovette sottoscrivere un documento che designava Kenner come suo legale e Suge Knight come suo manager. In qualità di manager, dunque, Suge avrebbe avuto il compito di “negoziare” i termini contrattuali con la casa discografica, ma dal momento che lui stesso era il boss dell’etichetta, si ritrovò nella comoda posizione di poter imporre all’artista obblighi e diritti, liberamente e senza alcun tipo di consultazione con terzi.

Il contratto venne approvato il 16 settembre 1995 e denominato “Dannemora Agreement”, poiché discusso con Tupac mentre si trovava ancora in cella.

Da quella data in poi, la vita di Shakur sarebbe stata imprescindibilmente legata al nome della label californiana.

Tupac durante un interrogatorio in carcere

Tupac durante un interrogatorio in carcere

Mentre la maggior parte dell’opinione pubblica, ancora oggi, è convinta che sia stato Suge Knight a versare i soldi necessari per liberare Tupac, è bene mettere in chiaro quale sia la verità: la Death Row Records non pagò alcuna cauzione per la scarcerazione di Tupac dal Clinton Correctional Facility.

Non si sa con esattezza se Tupac ne fosse a conoscenza ma, secondo quanto si evince dai documenti legali, risulta che la cauzione da 1.4 milioni di dollari prevista per la liberazione di Shakur venne pagata dall’Atlantic Records (che versò 850 mila dollari) e dalla Interscope Records (che ne versò 250 mila), mentre i restanti 300 mila dollari vennero garantiti allo stato di New York attraverso la formula del bail bond.

Il bail bond può essere considerato una formula di pagamento molto simile alle comuni rate: il detenuto esce dal carcere con l’obbligo di pagare regolarmente delle somme di denaro, fino a raggiungere l’intera cifra richiesta. Qualora i pagamenti non vengano effettuati con puntualità, la pena prevede il rientro in cella.

Il motivo per cui l’Atlantic Records e la Interscope si accollarono parte delle spese per la cauzione di Shakur è da riscontrarsi nel fatto che, secondo gli accordi orchestrati dalla Death Row, la cessione dei diritti d’autore ricavati dalle vendite dei dischi di Tupac previsti per l’etichetta avrebbe garantito la restituzione delle somme prestate. Lo stesso discorso valeva per il bail bond.

Suge Knight

Suge Knight

Per quanto riguardava Tupac, invece, l’approdo alla Death Row Records non era qualcosa che lo riempiva di gioia: a fronte di come furono gestite tutte le questioni burocratiche relative ai suoi obblighi contrattuali, è lecito credere che – a telecamere spente – la sua idea differisse dalle dichiarazioni pubbliche.

A prova di ciò, vi è la confessione – che il rapper fece ai suoi amici e parenti più intimi – di voler lasciare la Death Row per fondare la sua casa discografica, la Makaveli Records, contrariato anche dai metodi “mafiosi” con i quali Suge Knight era solito condurre la vita aziendale; fu per questo motivo che, nel giro di soli dieci mesi, Tupac fu in grado di registrare un totale di circa duecento canzoni (alcune delle quali confluite in “All Eyez On Me” e “The 7 Day Theory”) e girare sei videoclip musicali (per “California Love”, “How Do U Want It”, “2 of Amerikaz Most Wanted”, “I Ain’t Mad at Cha”, “Toss It Up” e “To Live & Die in L.A.”), dando sfoggio di un’impressionante etica lavorativa.

I dissidi con l’avvocato David Kenner, inoltre, non aiutarono a creare distensione tra le parti: il 27 agosto 1996 – 11 giorni prima dell’attentato che l’avrebbe ucciso – Tupac sollevò Kenner dall’incarico, resosi conto che quest’ultimo non stava curando in alcun modo i suoi interessi, prediligendo quelli della label.

Nelle riprese e nelle fotografie che ritraggono Tupac negli ultimi giorni della sua vita, poi, è possibile notare che l’artista aveva ormai smesso di indossare il famoso pendaglio argentato della Death Row, in favore di un pesante medaglione targato Euphanasia, la compagnia che aveva fondato per sviluppare i suoi progetti cinematografici e finanziare iniziative benefiche.

Tupac con il medaglione Euphanasia

Tupac con il medaglione Euphanasia

Oltre alle questioni personali, vi erano anche enormi controversie economiche: nonostante i quasi 2 milioni di anticipo, i vari bonus sulle vendite dei suoi attesissimi album per la Death Row (18% di ricavi, più l’1% rispettivamente sulla soglia delle 500 mila ed il milione di copie, per arrivare ad un totale del 20%) e la garanzia di un robusto sostegno legale, Tupac morì con poco più di 100 mila dollari sul suo conto corrente, e senza alcun bene intestato.

Tutto, infatti, era di proprietà della Death Row Records. Questo perché Tupac venne deliberatamente derubato dei suoi soldi da parte dell’etichetta di Suge Knight, costantemente in debito per cifre spudoratamente gonfiate dai commercialisti della società. Gli vennero addebitati versamenti per circa 4 milioni di dollari, e stiamo parlando di spese assurde, delle quali il rapper non sapeva nemmeno l’esistenza: pagò quasi 3 mila dollari per gli alimenti del figlio di Nate Dogg, macchine e gioielleria di lusso per gli artisti della label, l’affitto sulla casa a Malibu di David Kenner e addirittura tutte le spese relative alle produzioni audio/video che aveva dovuto sostenere per la realizzazione e la promozione delle sue opere (soldi che, normalmente, vengono versati dalle case discografiche).

Il processo penale intentato da Afeni Shakur contro i vertici della Death Row, nell’aprile del 1997, ha evidenziato che la casa discografica avrebbe dovuto corrispondere a suo figlio – tolte le irregolarità – una cifra pari a circa 10 milioni di dollari.

Questo fu più o meno il clima ombroso in cui Tupac fu costretto a lavorare per gli ultimi mesi della sua esistenza terrena, pur di conservare la propria libertà. Ancora molti misteri restano sepolti tra le mura degli ex uffici della Death Row Records, situati al 10900 di Wilshire Boulevard. Troppe menzogne sono state scritte da giornalisti poco informati e/o accondiscendenti, facendo credere al mondo che uno dei più grandi geni del secolo scorso fosse “risorto” grazie al suo trasferimento sulla costa pacifica. In realtà, non è mai stato un mistero che la Death Row utilizzasse metodi a dir poco malavitosi per gestire i propri artisti, e Tupac fu probabilmente quello che ne subì le conseguenze peggiori.

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Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

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Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Classe 1991, vive e lavora a Milano. Esperto di cultura Hip-Hop statunitense, collabora con Mondo Rap dall'ottobre del 2015.