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Chi era l’uomo che sparò a Tupac ? La storia di Orlando Anderson

Vent’anni fa, la comunità hip-hop ed il mondo intero hanno dovuto dire addio allo straordinario Tupac Shakur, perito sotto i colpi d’arma da fuoco esplosi dall’interno di una Cadillac bianca, la sera del 7 settembre 1996, in una trafficata strada di Las Vegas, subito dopo l’incontro di boxe tra Mike Tyson e Bruce Seldon, vinto dal primo nel giro di un solo round. Da allora, le voci sul destino di Shakur non hanno mai smesso di rincorrersi:

c’è chi giura di averlo incontrato a Cuba, sottrattosi all’incombenza di una vita votata all’eccesso grazie alla simulazione della propria morte; c’è chi, invece, lo vuole morto per mano di Suge Knight, il boss della Death Row Records,

al volante della BMW nella quale sedeva anche lo stesso Tupac al momento della fatale sparatoria; un’altra scuola di pensiero ancora, crede che sia stato The Notorious B.I.G., il suo eterno rivale, ad aver pagato un omicidio su commissione, al fine di togliere di mezzo un personaggio che, effettivamente, gli aveva dato parecchie noie nell’ultimo anno e mezzo.

Molto probabilmente, tuttavia, la realtà non risiede in nessuna di queste ipotesi. L’unica verità accertata è che Tupac sia morto alle 16:03 del 13 settembre 1996, dopo sei giorni di agonia, allo Universal Medical Center of Southern Nevada, per arresto cardiorespiratorio.

Risulta assai difficile dover accettare la dipartita di un personaggio così adorato ed artisticamente dotato, e l’ulteriore beffa risiede nel fatto che, dopo due decadi esatte, nessun colpevole stia ancora pagando per questo tremendo caso di omicidio.

Un processo per la morte di Tupac, in effetti, non è mai stato celebrato, e la poca affidabilità del dipartimento di polizia di Los Angeles (il famigerato LAPD), travolto di lì a poco dal vergognoso scandalo Rampart, non ha certo aiutato a dare un volto al killer: depistaggi, mazzette ed interessi occulti hanno sicuramente minato il percorso investigativo, motivo per cui nessuno saprà mai indicare, con certezza chirurgica, chi abbia privato l’America di uno dei suoi figli più illuminati.

Tuttavia, nonostante nessuna corte giudiziaria si sia espressa a riguardo, un encomiabile lavoro è stato svolto da alcuni investigatori “puliti”, anche a costo della propria carriera, e tante informazioni aggiuntive sono emerse attraverso confessioni, spontanee e non, rese da persone informate sui fatti.

Un vecchio detto sostiene che le strade “parlino” e, anche per quanto riguarda l’uccisione di Tupac, gli addetti al caso sono stati in grado di captare fondamentali rivelazioni, rigorosamente “a bassa voce”, che hanno permesso di aggiungere cruciali tasselli al mosaico di questa storia.

Nonostante i reali motivi siano ancora pressoché avvolti nel mistero, oggi, alla domanda “chi ha sparato a Tupac?”, qualsiasi residente di Compton e dintorni non avrebbe dubbi nel fare un nome ed un cognome: Orlando “Baby Lane” Anderson.

Orlando Tive "Baby Lane" Anderson.

Orlando Tive “Baby Lane” Anderson.

Orlando Tive Anderson era nato a Compton, il 13 agosto 1974, da una tipica famiglia afroamericana del ghetto: suo padre, Harvey Lee Anderson, aveva divorziato dalla madre, Charlotte Davis, ed era sparito dalla circolazione, ma il piccolo Orlando ebbe modo di vivere nel calore della sua numerosa casata, circondato dagli zii e dai nonni materni, che sostituirono in qualche modo l’assenza della figura paterna.

La nonna Utah era emigrata dal Texas qualche tempo prima dello scoppio della prima guerra mondiale, e aveva trovato ospitalità a South Central, seguendo le migliaia di cittadini di colore in cerca di lavoro nelle industrie belliche, prima di trasferirsi definitivamente a Compton, negli anni ’50.

“Tutti avevamo problemi con i nostri genitori”, ha raccontato anni fa un amico stretto di Anderson. “Le nostre madri si facevano di crack e i nostri padri erano chissà dove. Orlando, però, aveva qualcosa che noialtri non avevamo: una famiglia. Andava a scuola, aveva un pasto assicurato ogni giorno, non aveva problemi”.

Anche il fratellastro di Anderson, Pooh, ha voluto mettere in chiaro il sereno background del suo stretto parente, parlando a nome della famiglia per smentire le insistenti chiacchiere relative ad un profondo coinvolgimento di Lando nell’ambiente microcriminale californiano: “Non ha mai causato alcun tipo di problema”, ha dichiarato con convinzione Pooh al Guardian. “Posso dire che era un ragazzo sempre coinvolto in cose positive. Sempre, sempre, sempre”.

Tuttavia, nemmeno il giovane Pooh, all’epoca dell’intervista, fu in grado di negare che Orlando, nei primi anni dell’adolescenza, ebbe un qualche tipo di contatto con gang locali, pur sottolineando che non ci furono ripercussioni sulla sua condotta di vita successiva.

 

Anderson, effettivamente, seguì un percorso scolastico che lascia intendere una netta distanza con lo sporco mondo criminale: frequentò, per un breve periodo, la Taft High School (la stessa scuola in cui andò Ice Cube), prima di diplomarsi con successo alla Dominguez High School, dove iniziò una relazione con una certa Rasheena Smith, che sarebbe poi diventata la madre delle sue due figlie, Krystal e Courtney (ebbe un’altra figlia, Ariel, con una ragazza di nome Taiece Lanier).

Orlando non fumava, non beveva e non fu mai condannato per alcun crimine. Insomma, non si trattava del tipico teppista del ghetto, anche se alcuni particolari del luogo in cui viveva mostrano quanto, in realtà, l’atmosfera in cui il ragazzo crebbe fu piuttosto contaminata dal cancro della violenza.

La famiglia Anderson abitava in una casetta bianca in South Burris Avenue, un’insignificante traversa della ben più importante Alondra Boulevard, a Los Angeles.

Una rara fotografia di Orlando Anderson, ritratto nella via in cui abitava, in Burris Avenue (Los Angeles).

Una rara fotografia di Orlando Anderson, ritratto nella via in cui abitava, in Burris Avenue (Los Angeles).

Lì, in ogni angolo, su qualsiasi pezzo di muro, è possibile notare tutt’oggi delle scritte lasciate dal lavoro delle bombolette spray: “SS” e “Cant’ STOP the SSC”, principalmente.

“SSC” non sono altro che le iniziali di “South Side Crips”, la divisione dei Crips che, in quel territorio, possiede il monopolio delle attività illegali: che si tratti di spaccio di stupefacenti, prostituzione o racket di vario genere, gli spietati soldati di questa truppa dominano l’area da tempo immemore – almeno fin dagli anni ’60 – ed erano al massimo del loro splendore all’epoca in cui Orlando Anderson era soltanto un giovane ed ingenuo adolescente.

Le strade di Compton, d’altronde, sono ormai universalmente riconosciute come la culla dei Crips e dei Bloods, i cui membri, già durante il mandato presidenziale di Reagan, si contavano nell’ordine delle decine di migliaia.

A grandi linee, i Bloods occupano storicamente la zona a nord di Compton (dove hanno il loro quartier generale rinomate divisioni, tra cui i Leuders Park e gli MOB Pirus), mentre la fetta meridionale della cittadina è in mano ai Crips (Corner Pocket Crips, i Kelly Park Crips, i Neighborhood Crips, i Santana Blocc Crips e, appunto, i South Side Crips).

 

Secondo quanto emerso da approfondite indagini, contrariamente a quanto sostenuto da amici e parenti, Orlando era un rinomato membro dei South Side Crips, coinvolto senza riserve nelle attività più infami e pericolose della “famiglia”; pare avesse anche ucciso alcuni uomini a sangue freddo, ma niente di ufficiale è mai stato verbalizzato.

Dopo la morte di Tupac, nel ’96, il nome di Anderson iniziò immediatamente a circolare nelle sedi dei più importanti giornali e network televisivi americani, al punto che il ventiduenne divenne una sorta di personaggio pubblico, uno status che lo rendeva vulnerabile e soggetto ad un qualsiasi tipo di rappresaglia, sia da parte dei fans del defunto Tupac, sia da parte dei Bloods, con i quali la Death Row Records era legata a doppio filo.

Così, per tutto il 1997, nel tentativo di calmare le acque e ripulire la propria immagine, Anderson concesse una serie di interviste – alla CNN e alla rivista musicale Vibe, ad esempio – durante le quali, però, non fece altro che peggiorare la propria situazione: la sua rilassatezza, il sorriso beffardo e la natura evasiva delle risposte lasciavano intendere una proclamazione d’innocenza solo simulata, tradita da una sintassi ed un linguaggio del corpo che rafforzarono agli occhi dell’opinione pubblica il suo coinvolgimento nel drive-by di Las Vegas.

L’anno seguente, comunque, pur paranoico e tracciato da un senso di rassegnazione (confidò al suo avvocato di non credere che avrebbe avuto una vita lunga), Orlando cercò di ricominciare a vivere, e si mise all’opera per spingere un paio di ambiziosi progetti che avrebbero dovuto fargli dimenticare la vicenda per cui era ormai diventato famoso in tutto il mondo: uno di questi era l’apertura di una casa discografica, che avrebbe dovuto chiamarsi Success Records, per la quale aveva già comprato tutte le apparecchiature da studio necessarie.

Anderson nel 1997, intervistato dalla giornalista Stephanie Frederic.

Anderson nel 1997, intervistato dalla giornalista Stephanie Frederic.

Proprio a proposito di quest’ultimo punto, molti si domandarono dove il giovane – ufficialmente disoccupato – avesse trovato i soldi per potersi permettere tutti quei marchingegni, e fu allora che venne alla luce l’ennesima teoria diffamatoria nei suoi confronti: Anderson, infatti, sarebbe stato pagato da Suge Knight in persona per testimoniare il falso durante il processo a carico del boss della Death Row, accusato di aver partecipato al suo pestaggio, nell’atrio del lussuoso hotel MGM Grand, nei minuti che precedettero il clamoroso drive-by.

Dal 1992, infatti, Knight si trovava in regime di libertà vigilata, ed un’eventuale condanna lo avrebbe spedito dritto in carcere. Anche se il video girato dalle telecamere di sicurezza dell’hotel mostravano chiaramente la complicità del corpulento Knight nella zuffa, Anderson raccontò tutt’altro sul banco dei testimoni, sostenendo addirittura che il boss fosse intervenuto soltanto per dire ai suoi di smettere di picchiarlo.

Il giudice, comunque, non credette alla deposizione di Lando e, sentendo probabilmente odore di corruzione, condannò Knight a quattro anni di prigione.

Su una cosa, è doveroso ammetterlo, Orlando Anderson fu sincero e profetico: non era destinato a vivere a lungo.

Nel pomeriggio del 29 maggio 1998, a bordo di una grossa Chevy Blazer, Anderson ed un suo amico, Michael Reed Dorrough, raggiunsero l’incrocio tra Alondra Boulevard e Oleander Avenue. Erano diretti al Mom’s Burger, un piccolo chiosco della zona, dove avevano intenzione di consumare un pranzo veloce, ma Anderson notò un individuo, Michael Stone, fermo con la propria auto in un autolavaggio a gettoni.

Stone non era solo: si trovava lì con suo nipote, Jerry, ed i due uomini furono avvicinati da Baby Lane, il quale pare avesse un conto in sospeso con Michael per una spinosa questione di soldi.

Come spesso accade tra le creature della strada, gli animi si accesero velocemente, e le pistole presero il posto delle parole: Michael e Jerry Stone furono entrambi colpiti da numerosi colpi e morirono sul posto, mentre Anderson, gravemente ferito, cercò di correre con la propria Blazer verso il più vicino ospedale.

Non avrebbe fatto molta strada: dopo aver percorso un paio d’isolati, la jeep del giovane svoltò a sinistra, imboccando la Willowbrook Avenue, ma non fece in tempo a superare l’incrocio con Cocoa Street, che Orlando perse i sensi al volante, facendo schiantare il suo veicolo contro un albero.

Trasportato al Martin Luther King, Jr. Outpatient Center, fu dichiarato morto all’arrivo.

Anderson sfoggia orgoglioso una grossa placca recante la scritta "South Side", riferimento alla divisione dei Crips di cui faceva parte.

Anderson sfoggia orgoglioso una grossa placca recante la scritta “South Side”, riferimento alla divisione dei Crips di cui faceva parte.

Poche ore prima della morte di Anderson, per una strana coincidenza voluta dal destino, si era spenta l’amata nonna Utah, ultraottantenne, che per tanti anni si era presa cura del nipote e di sua madre.

Una fine ingloriosa, parte della cronaca quotidiana dei malfamati quartieri di ogni parte degli Stati Uniti, ma pur sempre tragica, comunque la si voglia vedere.

Non molti, in questi anni, hanno portato fiori sulla lapide di Orlando Tive Anderson, e i motivi sono forse più che comprensibili; l’esser ritenuto responsabile della morte di uno dei più grandi rapper mai esistiti non avrebbe potuto portarlo lontano, tantomeno la sua condizione sociale di afroamericano residente a Compton, affiliato a quegli stessi South Side Crips di cui aveva fatto parte in gioventù il padrino del gangsta rap, Eazy-E, il quale aveva con la famiglia Anderson uno stretto legame di amicizia.

E’ parecchio improbabile sperare che, dopo tutti questi anni, si arriverà mai alla verità sul movente che spinse Anderson a far fuori Shakur (il pestaggio all’MGM Grand? Gli attriti con la Bad Boy di Biggie e Puff Daddy? Un regolamento di conti tra Bloods e Crips?), ma siamo tutti chiamati a riflettere su un particolare non indifferente, straziante ed impregnato di amarezza: al momento della loro scomparsa, Tupac aveva 25 anni, e Orlando Anderson ne aveva 23.

Tutto il resto, forse, passa in secondo piano.

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

 

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Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Classe 1991, vive e lavora a Milano. Esperto di cultura Hip-Hop statunitense, collabora con Mondo Rap dall'ottobre del 2015.