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All Doggs go to Heaven, la storia di Nate Dogg

Trovare una categoria nella quale inserire Nate Dogg è sempre stata l’impresa più ardua per qualsiasi critico musicale. Troppo melodico per etichettarlo come rapper, troppo “ghetto” per considerarlo un classico cantante, avvinghiato a quel suo charme “gangsta” che ne fa ancora oggi, a cinque anni dalla sua morte, una delle figure più iconiche della scena West Coast di tutti i tempi.

La confusione relativa alla sua definizione artistica non è mai stata in grado di scalfire l’autenticità e l’apprezzabilità del suo personaggio: le ultime due generazioni hip-hop, infatti, non hanno potuto far altro che guardare con estrema ammirazione a quella sua capacità, così unica ed inimitabile, di raccontare storie di violenza urbana sotto il sole della California con vocalizzi degni di un signore dell’RnB.

Anche quest’ultima descrizione, tuttavia, non rende piena giustizia al protagonista del nostro articolo. Quindi, chi è stato davvero Nate Dogg?

Nate Dogg.

Nate Dogg.

Nato con il nome di Nathaniel Dwayne Hale il 19 agosto 1969, il ragazzo non veniva da Los Angeles: era emigrato, al seguito della madre Ruth, dalla vecchia Clarksdale, una piccolissima cittadina del Mississippi, situata nel profondo sud americano razzista e poco consona alle aspettative di una vita dignitosa da parte della numerosa popolazione di colore.

Per quanto, più tardi, il giovane Nate si sarebbe messo in mostra nelle vesti di rappresentante di spicco del folklore urbano californiano, i primi quattordici anni passati a Clarksdale gli instillarono certamente una grande vocazione, un’impronta musicale che gli avrebbe permesso di distinguersi nello stile, mescolando i ritmi e i tempi del leggendario Delta Blues (che prende il nome, appunto, dal delta del fiume Mississippi) con tutta la sfrontatezza e la volgarità delle strade più malfamate di Long Beach.

Clarksdale è universalmente considerata la culla della musica nera, custode di un bagaglio culturale immenso, che va dal tramonto dei disorganizzati spirituals all’esplosione del fenomeno jazz a New York e Chicago: fu qui che Muddy Waters trascorse alcuni anni della sua vita, e fu sempre qui che Robert Johnson, secondo la leggenda, vendette al diavolo la sua anima, in cambio del talento chitarristico che ne avrebbe fatto il più influente bluesman della storia. La California, però, era tutt’altra storia.

Quando Nate arrivò a Long Beach, nel 1983, i postumi dei disordini di Watts e le prime conseguenze della scellerata presidenza di Ronald Reagan avevano già dato forma e sostanza al malcontento popolare di colore: Compton aveva smesso già da tempo di essere quel piccolo paradiso in cui le infrastrutture di proprietà bianca garantivano alla minoranza afroamericana una vita più che dignitosa; l’enorme migrazione nera del periodo bellico aveva fatto storcere il naso alla borghesia razzista caucasica, che aveva lasciato quei quartieri intorno a Los Angeles prima nelle mani delle gang simpatizzanti del Ku Klux Klan (come gli Spook Hunters di South Gate) e poi in quelle del LAPD, capitanato dal terribile William Parker, il quale contribuì più di chiunque altro a fare della polizia losangelina un’istituzione dalla fama controversa.

C’era poi il crack, che negli anni ’80, su entrambe le cose degli Stati Uniti, infestò ed insanguinò le strade di ogni ghetto, al punto che gli storici hanno dovuto dare un nome alla tragedia, coniando il termine “epidemia del crack”, prendendo in prestito una parola generalmente riservata al fatale diffondersi di una malattia infettiva.

Pic della pagina FB “Le migliori frasi del Rap Americano“.

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Il crack aveva dato ai giovani abitanti dei quartieri più poveri la possibilità di creare un commercio a buona rendita, e divenne presto la spina dorsale delle attività dei Crips e dei Bloods, formazioni ormai ben radicate nella periferia di L.A., sorte proprio come risposta più immediata ai tumulti degli anni ’60.

Fu in questo contesto a dir poco inquietante che il giovanissimo Nate Dogg, all’epoca ancora semplicemente Nathaniel, mosse i suoi primi passi nel nuovo ambiente. La sua sensibilità artistica, comunque, era già palese: sia presso la Life Line Baptist Church di Clarksdale, dove il padre Daniel Lee Hale faceva attività pastorale, che presso la New Hope Baptist Church di Long Beach, il ragazzino si distinse per le sue abilità canore nel coro dei chierichetti, prima di mollare tutto (scuola compresa) ed arruolarsi nell’esercito, nei Marines, all’età di diciassette anni.

Nel 1990, congedato dal servizio militare, Nate fece la conoscenza di Snoop Dogg (all’epoca ancora “Doggy Dogg”), Daz Dillinger e Warren G, adolescenti pieni di speranze – i primi due affiliati ai Crips – intenzionati a fare della musica il loro mestiere.

 

Con Snoop e Warren G, dunque, Nate formò il trio 213, numero ispirato dal prefisso telefonico di Los Angeles.

I 213 non avevano grandi platee davanti alle quali esibirsi, e la maggior parte del loro tempo era destinato ad affinare la tecnica di esecuzione, alla scoperta di nuovi modi di fare rap e alla ricerca di uno stile fresco ed originale, di cui la West Coast aveva un gran bisogno, in quel particolare periodo.

Warren G era il fratellastro di Dr. Dre e, a più riprese, aveva cercato di proporgli dei nastri amatoriali del suo gruppo, ma la frenetica attività al servizio degli N.W.A, fino al 1989, avevo reso impossibile allo straordinario produttore di Compton di dedicare il suo tempo all’ascolto di quei demo.

La vera occasione per i 213 di spiccare il volo arrivò finalmente nei primissimi mesi del 1991, quando Dr. Dre, ora accasato presso la Death Row Records di Suge Knight ed in procinto di lanciarsi in un’ambiziosa carriera solista, chiamò a sé i tre giovani, arruolandoli nella produzione di quello che poi sarebbe diventato uno degli album più influenti nella storia del rap, “The Chronic”.

All’uscita del disco, nel dicembre del 1992, la critica rimase molto impressionata – oltre che dallo stile, incomparabile, di Snoop – dalla voce di Nate Dogg, vibrante ed intonata in un modo che nessuno avrebbe mai immaginato di poter ascoltare prima di allora.

Nate convinse tutti e, da quel momento, la sua carriera si sarebbe potuta considerare in piena ascesa.

Warren G e Nate Dogg.

Warren G e Nate Dogg.

Purtroppo, però, non sempre le cose vanno come dovrebbero andare, ed il nostro si trovò presto invischiato in una scomodissima situazione, per lo più legata a motivi estranei alla musica, che non gli permise di esprimere appieno il suo sterminato talento.

L’anno di massimo splendore artistico per Nate fu il 1994, quando collaborò con il gruppo Thug Life di Tupac sullo struggente pezzo “How Long Will They Mourn Me?” e, soprattutto, con Warren G alla biblica “Regulate”, primo singolo estratto dall’album di debutto di Warren, “Regulate…G Funk Era”.

Il fatto che “Regulate…G Funk Era” fosse uscito su etichetta Def Jam, e non Death Row, aiuta probabilmente a capire quanto il clima, negli studi della label di Beverly Hills, fosse teso e dispotico: Dr. Dre aveva scelto di accogliere tra le sue braccia Snoop, mentre gli altri due membri dei 213 furono deliberatamente messi in disparte, senza alcun concreto potere decisionale e privi di contratto. Warren non firmò mai per la Death Row, mentre la firma di Nate Dogg arrivò nel ’93, ma priva di alcuna garanzia sul futuro.

A metà degli anni ’90, la Death Row Records poteva considerarsi la più potente realtà dell’industria discografica mondiale, ma il modo in cui gli affari quotidiani venivano gestiti lasciava intendere che il successo non sarebbe stato eterno, e che tutto sarebbe prima o poi finito con una rovinosa implosione.

Nate si trovò nel bel mezzo di quella spiacevole situazione, e poté testimoniare con i suoi stessi occhi tutti i soprusi e le irregolarità: che si trattasse di artisti picchiati selvaggiamente per un ritardo o sparatorie improvvise negli uffici, non era possibile credere che l’album di debutto del ragazzo di Clarksdale avrebbe potuto vedere la luce in tempi brevi.

 

In effetti, con l’approdo in squadra di Tupac, nell’ottobre del 1995, Nate Dogg probabilmente capì in via definitiva che non avrebbe avuto alcun tipo di futuro in seno alla Death Row: aveva registrato tantissime tracce, nel suo tipico stile G-funk e soul, ma la data di uscita continuava ad essere posticipata, in un tripudio di cattiva gestione aziendale, poca trasparenza e malafede.

Il 1996, infine, fu l’anno in cui tutti i nodi vennero al pettine: con l’uccisione di Shakur a Las Vegas e la dipartita di Dr. Dre (che mise in piedi il colosso Aftermath), la Death Row cadde a pezzi, e Nate fu costretto ad accasarsi alla sconosciuta Breakaway per veder finalmente concretizzarsi, il 21 luglio 1998, la pubblicazione del suo album di debutto, chiamato “G-Funk Classics, Vols. 1 & 2”.

Da questo momento in poi, la carriera del cantante dei 213 si basò essenzialmente sulle collaborazioni con altri artisti sulla cresta dell’onda: degna di nota la sua presenza in “Bitch Please” di Snoop, “The Next Episode” di Dre, “Area Codes” di Ludacris e “21 Questions” di 50 Cent, quest’ultimo brano tratto dall’acclamatissimo “Get Rich or Die Tryin’”, il disco che presentò l’ex spacciatore del Queens al mondo.

I 213. Da sinistra: Warren G, Snoop Dogg e Nate Dogg.

I 213. Da sinistra: Warren G, Snoop Dogg e Nate Dogg.

Nel 2001, questa volta per l’Elektra, pubblicò l’ottimo “Music & Me”, l’ultimo disco distribuito mentre era ancora in vita.

Un altro progetto, chiamato semplicemente “Nate Dogg”, aveva iniziato a circolare come bootleg a partire dal 2003, per poi fare la sua comparsa ufficiale nei negozi nel febbraio del 2014, alla vigilia del terzo anniversario dalla sua morte.

Il 15 marzo 2011, purtroppo, Nate Dogg si spense nella sua residenza dell’amata Long Beach, a causa di un arresto cardiaco. Già a partire dal 2007, l’artista era entrato ed uscito continuamente dagli ospedali per il medesimo problema, e negli ultimi mesi di vita stava facendo la riabilitazione necessaria per recuperare l’uso della parte sinistra del suo corpo, paralizzata sin dai tempi del primo infarto.

Abbiamo perso una vera leggenda dell’hip-hop e dell’RnB”, scrisse Snoop Dogg su Twitter il giorno dopo la morte dell’amico. “Siamo stati come fratelli sin dai tempi del liceo, dove c’eravamo incontrati per la prima volta, nel 1986. Mi mancherai, amico. Sono molto triste, ma anche felice di esser cresciuto con te, e ti rivedrò di sicuro in paradiso, perché conosci il nostro slogan, ‘all doggs go to heaven’”.

La salma di Nate Dogg riposa oggi presso il Forest Lawn Memorial Park, a Long Beach.

 LEGGI ANCHE “QUANDO SNOOP DOGG VENDEVA L’ERBA A CAMERON DIAZ

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

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Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Claudio Spagnuolo aka Klaus Bundy

Classe 1991, vive e lavora a Milano. Esperto di cultura Hip-Hop statunitense, collabora con Mondo Rap dall'ottobre del 2015.